Il manager anaffettivo è quello che si interessa delle cose di sua competenza, ma non guarda un solo centimetro più in là.
Non si prende realmente a cuore le cose.
Ma non è un manager scarso. Anzi, di solito “tecnicamente” è piuttosto bravo. Infatti è diventato manager perché faceva particolarmente bene il suo lavoro, e quindi l’azienda gli ha dato fiducia.
Fa bene il suo lavoro, ma non perché ci tiene.
Lo fa bene perché questo prevede il suo meccanismo mentale.
Il manager anaffettivo ha una sola bussola: l’esecuzione del task.
Quando deve svolgere un task, svolge il suo task.
Se il task è fatto da tanti sotto-task, svolge bene anche i sotto-task. Concatena i task con efficienza.
E magari anche con efficacia.
Ma tutto senza sentimento.
Eppure, nessuno sportivo diventa il N. 1 al mondo se non ama ciò che fa. Nessun attore vince l’Oscar se non ama il suo lavoro. Nessun imprenditore tratta la sua azienda con distacco: ogni azienda è come un figlio.
Nessun manager esercita una qualche forma leadership se è bravo tecnicamente ma asettico, anaffettivo.
Il manager anaffettivo non concepisce che una metrica importante del suo lavoro sia la soddisfazione di chi lo circonda: io il mio lavoro l’ho fatto come doveva essere fatto… ma perché il mio collega non è contento? perché il mio collaboratore non è contento? perché il mio capo non è contento? perché il mio cliente non è contento?
C’è un bellissimo modo di dire nel mondo della vendita che riassume perfettamente la distanza tra manager anaffettivo e il suo cliente (interno o esterno che sia):
“People will never care how much you know until they know how much you care”
Eccellere nel fare una certa cosa significa farla non solo BENE, ma anche col cuore.