La recente caduta di Madonna a Londra ai Brit Awards, e la coda di polemiche sulla mantella che ha causato l’incidente (v. http://bit.ly/1HnMt9P) mi ha offerto l’opportunità di apprendere qualcosa di interessante su uno degli stilisti più famosi a livello mondiale, Giorgio Armani (e anche sulle pretese di una popstar, ma questo esula dalle finalità dell’articolo…).
Qualche giorno fa durante una cena ho sentito alcuni retroscena sulla vicenda. A parte gli aspetti di gossip, emersi in parte nei giorni scorsi anche sui media, mi hanno colpito alcuni tratti dello stile di management di Armani.
Ho sempre ritenuto che non si possa diventare (e restare) dei numeri 1 in qualunque settore senza meritarselo. E penso che se la moda italiana è così affermata a livello mondiale non è solo perché in Italia siamo dei bravi creativi, ma perché alcuni nostri creativi hanno saputo coniugare la creatività italiana con due caratteristiche di solito distanti dal nostro DNA: disciplina e perfezionismo maniacali.
A quanto ho sentito l’altra sera, Armani è appunto la dimostrazione di questo connubio di talento e rigore.
Stiamo parlando di un signore oggi ottuagenario (è nato nel luglio del 1934), affermato a livello internazionale da diversi decenni, e piuttosto benestante: in base al suo profilo su Wikipedia la sua ricchezza nel 2015 è infatti valutata dalla rivista Forbes in circa 7,6 miliardi di dollari, cosa che ne fa il 5° uomo più ricco d’Italia e il 174° nel mondo.
Qualcuno pensa che la vita di uno stilista di fama mondiale sia fatta solo di sfilate, di PR, e di interviste? Anche, ma non solo.
O che sia fatta di riunioni col board per curare gli aspetti finanziari dell’impero? Anche, ma non solo.
O che sia fatta di telefonate ai suoi collaboratori mentre è in vacanza in qualche località esclusiva? Probabilmente ogni tanto c’è anche questo, ma non solo.
C’è di più. C’è molto di più.
C’è la normalità del lavoro quotidiano di uno stilista semplicemente innamorato del suo lavoro come il primo giorno (e quindi per questo anche molto lontano dalla figura del manager anaffettivo di cui ho parlato in un altro articolo).
Ho appreso infatti che ancora oggi non passa giorno in cui Armani non trovi il tempo di recarsi personalmente in laboratorio a controllare ogni minimo dettaglio delle sue collezioni.
E spesso il suo arrivo genera un’ondata di superlavoro da svolgere all’ultimo minuto. Se ad esempio ritiene che il colore riflesso da uno strass, sotto le luci della passerella, potrebbe dare un effetto diverso da quello che lui ha in mente, lo strass va cambiato, anche a costo di rifare tutto la notte prima della sfilata.
Maniacale. Esigente. Intransigente. Perfezionista. Curatore di ogni minimo dettaglio.
Eppure non credo che non possa permettersi di assumere nel proprio laboratorio i migliori collaboratori, i migliori sarti, i migliori giovani stilisti.
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Qual è allora la lezione per tutti noi?
Alzi la mano chi – imprenditore o manager, e con un patrimonio inferiore ai 7 miliardi di dollari – ancora si illude di essere per così dire arrivato, e spera di poter delegare senza più bisogno di “sporcarsi le mani” con i dettagli di ciò che ha fatto la sua fortuna fino ad oggi.
Pensiamo che scendere in stabilimento a controllare la produzione sia una cosa antiquata, da vecchio imprenditore rebamba? Niente di più sbagliato.
Pensiamo che basti assumere dei bravi manager col master per far andare avanti in sicurezza la baracca? Nooo way.
L’eccellenza, che ci piaccia o no, deriva dal perenne rifiuto di ogni compromesso sulla qualità del prodotto e dall’esercizio indefesso del controllo.